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Questo
potrebbe essere il primo di una serie di articoli finalizzati a rendere
omaggio ai contenuti della “etnia musicale Sardo-Gallurese”,
preziosa custode, da sempre, della ricchezza spirituale della nostra
gente, che fin dai tempi più remoti imparato, attraverso i ritmi
e le cadenza del canto e della danza popolare, a relazionarsi con la
comunità dei viventi, l’ambiente naturale e, perché
no, anche con il “sopranaturale”. Osservazioni introspettive passeranno al setaccio sia il tessuto tecnico musicale, sia le percezioni sociologiche e filosofiche che si mimetizzano nell’intonazione di una Brunedda, o nella coreografia, apparentemente monotona e ripetitiva, di lu baddittu. Il canto per più voci, più conosciuto come la tasgja, si è stabilito nel tempo come uno delle forme più rappresentative del folklore musicale sardo e Gallurese. In questo ambito territoriale ha perfezionato la propria caratteristica canora della quale si osservano anche alcune varianti nel Nuorese e, sia pur in ambito più localizzato, anche nel resto dell’Isola. La sua diffusione in Corsica (soprattutto nei primi anni del’800), data la vicinanza con Aggius, Tempio, Luogosanto ecc., è stata favorita da una forma di “competenza”, cresciuta tra i cantori. La tasgia, considerata oggi autentico patrimonio culturale, è stata “trasmessa” da una generazione all’altra con orgoglio e una certa sacralità, soprattutto nel primo dopoguerra del ‘900, con l’obiettivo di preservare sia l’originalità della tecnica espressiva, sia avvalendosi delle innumerevoli varianti o interpretazioni del medesimo frammento (che hanno fatto scuola, come lo stesso Gabriel ha ammesso). Parlando di variante nella “polivocalita’ ”etnica, si abbraccia un campo molto vasto, per cui è necessario stabilire alcuni punti fondamentali, per poter assicurarsi le conclusioni migliori e più attendibili. Senza dubbio i suoni che vanno a sovrapporsi nella tasgja Gallurese, e di conseguenza le “armonie” (intese nella loro accezione, ossia di convivenza di note) che ne derivano, entrano in una classificazione non colta, e non coerente con i codici contrappuntistici ufficiali (basti pensare alle ottave e alle quinte simmetriche fra le voci). Tale classificazione, in modo fonico-espressivo-figurativo, si presta adeguatamente a mettere in evidenza le possibilità che ogni voce (bassu, contra, boci, trippi, falsittu) comprende, e produce soprattutto quando lo impongono le molteplici variabili dovute alla natura del testo, all’ambiente, al numero e all’esperienza dei componenti impegnati nella formazione del momento. Capita molto spesso, che tutte queste “varianti” vengano quasi inventate al momento o emesse istintivamente dai cantori. E’ risaputo che, per potersi rendere conto delle mutazioni che possono avvenire, anche tra esecuzioni degli stessi brani, bisognerebbe necessariamente essere in possesso di elementi cosiddetti di “confronto”, e cioè mettersi nelle condizioni di poter paragonare le diverse interpretazioni, conoscere bene gli stili e le forme musicali da analizzare, e questo è possibile solo per chi è abituato ad osservare, concentrandosi attentamente sui particolari, sottoponendo a scomposizione e analisi tutto ciò che i complessi meccanismi dei nostri sensi devono “calcolare” e identificare. Sia essa una sequenza musicale, che l’immagine di un dipinto, o il gusto di una pietanza. Per classificazione fonica-espressivo-figurativa, dobbiamo intendere una sorte di illustrazione virtuale di tutte quelle forme che descrivono simbolicamente uno stato d'animo, un avvenimento, un personaggio o una località descritti ad esempio in un racconto o in una poesia, o qualsiasi aspetto della natura, che si trasmette al pubblico sotto forma di segnali acustici (note, gemiti, sibili e rumori), assemblati anche senza una precisa osservazione delle rigide regole della teoria musicale, che spiega e racconta, per così dire, la dinamica di azioni e sentimenti. Approfondendo i vari punti sopra menzionati, ravviseremo come la cosa più difficile sia proprio il voler illustrare con le sole voci che non pronunciano alcun testo, ma si limitano a vocalizzare una “a” oppure una “e”, un qualcosa di astratto come uno stato d'animo, e allo stesso tempo fare in modo che all’orecchio dell’ascoltatore (il destinatario) arrivi il prodotto così come lo abbiamo prefigurato mentalmente. Spesso si parla di guarnire di espressioni tipiche del posto (all’aggjesa o alla Bultiggjatesa) un mottetto o un passo particolare di un canto Tibi. Ciò suscita in noi dei moti d'animo, suggerendoci sensazioni “figurative”, trattandosi soprattutto di dinamiche musicali descrittive, perché provenienti da reinterpretazioni degli stessi passi melodici e armonici; se nessuno ci presentasse ( e traducesse) i versi accorati della Disispirata: Tu di lu mari li sireni abbagli…potremmo attribuire dinamiche sensazionali forse difformi dall’estasi stilnovista a cui ci ha abituato l’autore Petru Alluttu. Cosi anche per il compositore Smentana; se non sapessimo che la Moldava è la descrizione musicale del fiume Moldava dalla sorgente alla foce, penso che ben difficilmente qualcuno lo avrebbe capito ascoltando semplicemente la musica. Ma in entrambi i casi rimane intaccato lo stato d’animo che ci procurano i ritmi dei versi, i suoni delle rime e il modo degli accordi maggiori e minori che si alternano nelle armonie, e i melismi. Alle volte se a comuni ascoltatori facessimo udire un brano senza dir loro di che cosa si tratta, nella quasi totalità dei casi avremmo dei risultati piuttosto insoddisfacenti. Ma con ascoltatori più appassionati, più stagionati e adeguatamente informati si potrebbe anche rimanere sorpresi per le conclusioni storico-estetiche “colte” che ne potrebbero sortire anche da una analisi quasi “a caldo”! |
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Sulla
nascita della tasgja sono state enunciate diverse supposizioni, e la
più attraente è quella che riconduce alla riproduzione
di effetti acustici derivanti proprio dalla natura e dall’ambiente
agro-pastorale. Si pensa che proprio la spiegazione sull’entità
e la quantità dei suoni che compongono una tasgja, risalirebbe
ad origini antiche, e si concentrerebbe soprattutto nella regione centrale
dell’Isola, in particolare tra la Barbagia e la Baronia. Anche la sacralità e il rituale della disposizione a cerchio ristretto (per combinare e sincronizzare meglio le varie voci) rispondeva senza dubbio ad una esigenza ancestrale comune a gruppi vocali che intonavano monosillabi e vocali all’unisono, per fare da sottofondo ad una voce solista. Si ha prova da vecchi testamenti e registri ecclesiastici, che questo tipo di pratica era presente sia nella vicina Corsica intorno al 1300, in molte località delle Marche, dell’Abruzzo e della Toscana, e in molte isolette del Mediterraneo, adottata anche dalle donne per i angosciati rituali delle “prefiche” (attittu), naturalmente con impostazioni armoniche e ritmiche differenti, e sicuramente provenienti dalla cultura vocale greca e da rituali Fenicio-Punici. Parecchie ricostruzioni confermano pratiche simili, adottate probabilmente anche in diverse regioni dell’Africa centro settentrionale, la cui memoria si perde nel tempo. Più o meno, dalla seconda metà dell’800, molte località della Sardegna potevano vantare il proprio gruppo di cantori che si esprimevano a quattro o cinque voci. Nelle tenute di campagna (stazzi), negli ovili, nei punti di ritrovo (piazze, porti, e sagrati delle chiese) solitamente si ritrovavano persone delle più svariate estrazioni sociali, contadini e artigiani, pastori, e spesso anche viandanti “di passaggio”, che, prima ancora di conoscersi e presentarsi, facevano una sosta dove c’erano in corso festeggiamenti o cerimoniali tristi, e per manifestare la loro partecipazione e “fratellanza” si aggregavano ai cantori del momento. Proprio questi incontri estemporanei, favorivano immancabilmente una caratterizzazione, ogni volta inconsueta e “a sorpresa”. Affioravano esecuzioni contrassegnate da impasti timbrici originali, ritmi avvincenti, virtuosismi vocali inaspettati (falsitti), e ritocchi ai testi determinati anche dall’incrocio forzato di differenti gerghi e pronunce. Ci si guardava in faccia, si assumeva una posizione rigida e leggermente incurvata in avanti, bacino inclinato, un rapido colpo d’occhio e…via! Mano all’orecchio, in modo da esercitare contemporaneamente due funzioni: una quella di riferirsi fermamente alla nota base (tonalità), e l’altra, quella di non assoggettare la propria nota a quella del cantore “vicino”. In poche parole, come richiede anche la prassi polifonica colta, diveniva essenziale e determinante l’abilità del “sentire” e del “non sentire” . Le quattro voci si modellavano e combinavano durante l’esecuzione, e assumevano funzioni dissimili e complementari: - la voce solista che canta il testo facendo da guida alle altre, e indirizzando le modulazioni diatoniche in schemi ricchi di variazioni ritmiche e melodiche; - la mezza voce, acuta e in prevalenza melismatica, che plasma ornamentazioni e fioriture (ogni località vantava le proprie); - il baritono (contra) e il basso, abbinamento di suoni gutturali che originano una sorta di bordone, e costituiscono quella particolare e peculiare essenza armonica della struttura corale a tenores, in cui, senza dubbio, una mescolanza timbrica che ricorda la fusione delle canne delle Launeddas, assume una illimitata suggestione; in molti casi, suscitata anche senza la presenza di un testo letterario, e prodotta anche dall’impostazione delle particolari sillabe onomatopeiche, definite corfos (colpi), come il «bim, bom, ba», «li, le, bi, ba», «bi, ram, bai», a seconda del genere o dell’area geografica di appartenenza. Naturalmente alla fine, appagati soprattutto per le nuove “conoscenze” canore, diventava rituale un buon… bicchiere di vino!. |
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Si,
proprio intorno ad un bicchiere di vino, o nell’ambito di circostanze
festose o amareggiate, i nostri avi, in mancanza di altre distrazioni
sia ludiche che culturali, si ritrovavano a canticchiare una breve melodia,
quasi sempre ispirata a qualche canto liturgico o serenate rivolte alla
ragazza amata o “corteggiata”. In molti casi, chi assisteva
a tali prestazioni, era portato ad imitare, sovrapponendosi con la propria
voce più o meno garbata, e dando luogo così ad una sorta
di sovrapposizione spontanea di suoni che andavano a collocarsi quasi
sempre a distanza di ottava o di quinta. Anche oggi questo fenomeno di “istinto armonico” che viene da molti studi attendibili (Gavino Gabriel a Pietro Sassu) relazionato alla struttura sonora delle launeddas, è confortato da attendibili test di psico-acustica e approfondito in parecchie sedi universitarie anche come estensione di dottrine antropologiche ed estetico-storiche, oltrechè etnico-musicali. Per quanto riguarda gli aspetti reconditi della TAJA, prima ancora della prevalente omoritmia (sovrapposizione degli stessi ritmi) e moto rigorosamente retto delle voci (le varie voci si muovono, mentre una rimane ferma), evidente, a differenza di tutte le altre forme, anche nelle fioriture dinamiche, proveremo ad analizzare anche in sintesi, le armonie cosiddette “di passaggio” che emergono appunto nei passaggi da un accordo all’altro, e che ne caratterizzano il genere. Questo può valere anche per i disegni melodici o melismi (Gabriel li chiama fiurizamenti) fatti di un miscuglio di effetti acustici costituiti da notine emesse con un certo volume (intensità), a velocità variabili (ritmo), secondo frequenze che attraversano i quarti di tono (altezza), e mettendo in evidenza, spesso, vocali e consonanti chiari e scure, fonemi velati, brillanti, rauchi, strozzati, ecc. (timbro). Come possiamo notare, sono presenti e interagiscono le quattro fondamentali qualità del suono, ingredienti che intervengono anche a caratterizzare i diversi stili e dialetti. L'estro del cantore permette ovviamente di dosare tali elementi e quindi di eseguire composizioni più o meno equilibrate, ma sempre sfruttando opportunamente le componenti a lui note; esattamente come succede all’attore con un copione teatrale o cinematografico. Per quanto riguarda le tecniche fonetiche, forse nessuna, teoricamente, è da escludere, ma data la vastissima possibilità espressiva delle voci, diremmo che sarebbe opportuno spiegare l'uso corretto del fiato, soprattutto in corrispondenza di cambiamenti di tono (modulazioni), mutazioni improvvise e innaturali del ritmo (sincopi), e (trattandosi di voci maschili), di favorire l’uso di vocali “aperte” per rendere più sonori e potenti i suoni bassi (le “u” diventano quasi “o”). Mi prometto di ritornare su questi altri elementi relativi alla teoria della musica. Se fosse possibile, e la buona volontà rende possibili tante cose, sarebbe molto bello insegnare già ai ragazzi, magari introducendolo anche in molti programmi scolastici, come si possono organizzare delle voci, senza bisogno di ricorrere a brani con estensioni impegnative. Gli ingredienti principali sarebbero la convinzione e un pò d’ “orecchio” musicale. Basterà acquisire un po’ di esperienza con gli accordi maggiori e minori della scala diatonica di do, disporli eventualmente in successioni ravvicinate (gradi congiunti), fare in modo che ognuna della 4 voci proceda per conto proprio, secondo “salite” e “discese” prestabilite, quindi sincronizzarsi con gli altri solo per il ritmo da dare alle sillabe dei versi o, in alcuni casi, alle incursioni di vocali. Il tutto va impastato con un timbro vocale che può essere di varia natura, ma la scelta sarà fatta in base alla forza del basamento (lu bassu) sul quale si dovrà muovere la melodia principale del brano (la boci). Se useremo l’intelaiatura base (comune a varie formazioni vocali a “voci pari”, e cioè appartenenti tutte allo stesso sesso), è senza dubbio consigliabile la successione (procedendo dal basso verso l’alto) 1° /5° / 8° /10°. Espresso con i termini della musica colta sarebbero gradi della scala che prendono il nome di TONICA, DOMINANTE OTTAVA e MEDIANTE. Tradotti in linguaggio “enico-popolare” diventano: BASSU, CONTRA, BOCI e TRIPPI (che significa appunto terza o decima, calcolando la distanza dalla nota del basso). Se invece dovessimo usare i vari modelli del “raddoppio” (qualcuna o tutte le voci principali si sdoppiano, producendo una “voce gemella” che risulta però un’ottava più alta), sarà opportuno preferire una respirazione diaframmatica (prendere fiato il meno possibile), e sincronizzare gli attacchi con molto tempismo. In mancanza di entrambi i modelli, si potrà usare, su qualunque passaggio del canto, lo schema boci-contra, o cosiddetto delle quinte parallele. È una tecnica che tra l'altro offre moltissime possibilità sul piano estetico ed espressivo, e ci da una buona garanzia di stabilità nei cambi di tono (modulazione); basti pensare all’effetto di canti abbastanza stagionati come Te Deum e il Deus Ti salvet Maria. |
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Oltre
alle supposizioni scrutate negli articoli precedenti (vedi i Notiziario
di AGGIUS nn. 33,34 e 35), deduciamo che, nelle diverse aree Sardegna,
per esprimere il senso di una specie di composizione poetica di modesta
durata che soprattutto nelle forme più arcaiche nasce per simulare
il suono delle launeddas, sia nel timbro, sia nella capacità
espressiva, si ricorre ai termini Tasgja, Taja, Tasis, Taza, Tasja oppure
Taxa. Parecchie sono le indagini di tipo filologico, antropologico e etnico musicale, ma considerando la stretta connessione fra questo tipo di espressioni ed il tessuto sociale in cui si sviluppano, non si può collocare con sicurezza e in un tempo ben preciso la designazione del termine, e tanto meno indagare l’effettivo e il primario significato della parola. Il canonico Giovanni Spano, che prese minuziosamente in esame l’essenza morfologica e musicale di varie forme poetiche, non si allontana dall’idea che tajas e mutos potrebbero essere equiparabili e soprattutto nelle aree centro meridionali dell’isola, potrebbero essere assimilabili ad alcune forme di canti solenni, inni sacri e cantilene popolari. Egli, negli ambiti di molteplici studi effettuati su una sorta di “campionatura” di modelli presi da produzioni più o meno colte, perviene alla conclusione che comunque, anche a causa di interpretazioni etimologiche, il termine è documentato con altri significati e contenuti da diversi altri autori. Questo favorito anche dal fatto che negli ultimi 20 anni, ci si occupa con più introspezione delle forme di musica etnica più disparate.. Il poeta Giuseppe Calvia, una tra le imponenti figure di rilievo (Taja antica della Sardegna - 1898) nonché prezioso punto di riferimento per gli studi di archeologia ed etnografia e per il valore letterario delle sue poesie che gli hanno assicurato fama nazionale, afferma che in particolari contesti, la definizione taja possieda il senso di cantilena, nenia e canto funebre. E veniamo invece alla Gallura. La parola tasgia, da più di un secolo, mantiene inamovibile la tipicità di un sistema e una concezione di cantare, ed l’espressione si usa ancora oggi con la stesso accezione, come, del resto, dimostrano le blasonate e dirette ricerche del musicologo tempiese Gavino Gabriel, e le incisioni etnofoniche anche recentissime (1959) realizzate dal Centro Nazionale Studi di musica popolare. Nelle tradizioni popolari della Gallura, Maria Azara, parla di baddhu Tundu al ritmo di la tasgia. Senza dubbio, si capisce che fa uso di questo modo di dire per attribuire il significato di “assembramento di cantori” disposti a cantare in quel particolare stile, impiegando una certa tecnica, impostazione ed espressione. Alla fine, anche in questo caso, il termine tasgia si identifica nella semplice espressione greca: 'coro'. Altra preziosa testimonianza ci perviene da Salvatore Vidal, che nella presentazione alla composizione poetica Urania Sulcitana (Sacer 1638) dichiara che, esaminando e interpretando alcuni frammenti di Marangone in un archivio di Pisa, l’attributo assegnato al procedimento di organizzare le voci in una certa forma, comparirebbe come “tasi"; a riprova di tanti studiosi, tale traduzione storico-linguistica ci consegnerebbe senza mezzi termini la prova della esistenza nel sec. XII del nome tasi (Cirese, p. 140). In una narrazione che ci perviene da Esterzili si legge “… sa skas' 'e issu delargu sonaa kommènti un òrgunu, akkumpangénduru sa das, 'e issa dessidora. Tradotto dal Bottiglioni 'la skasa del telaio suonava come un organo, accompagnando la cantilena della tessitrice'…” . Alla luce di ciò, possiamo desumere che anche questa può considerarsi una sicura testimonianza che la definizione non risulta priva di fama neanche nel Campidano, e principalmente in quell’area settentrionale adiacente con l'Ogliastra e con la Barbagia. A Isili, non da molto, la definizione tasi, è stata riscontrata nella forma annotata nelle carte notarili dell'archivio di Pisa citati dal Vidal. Sempre secondo altre analisi compiute in maniera minuziosa e colta, si è potuto desumere che dai primi del ’900, la parola tasja (così appare in qualche documento attendibile) non viene utilizzata con l’accezione primitiva di "canto" o "coro". Col passare del tempo, il termine identificava addirittura il “rituale” del proporre un canto per una precisa cerimonia o festa, e in qualche località della Gallura e dell’Anglona anche quello di “graticola” (forse per un lontano riferimento all’ “incrocio” delle voci). In qualche caso, ha assunto anche un senso quasi offensivo che è arrivato fino ai a noi, oltre che col significato assimilato già menzionato di “tessitura vocale”, anche nel senso a tutti noto, di 'suono o rumore indefinito, voce, canto, urlo fastidioso: …Palchì no la mechi cun chissa tasja!… che tradotto significa …Perché non la finisci con quel disturbo. |